Mi ero ripromessa che non avrei scritto di te, che tanto non eri nessuno. Mi ero ripromessa di non crederci, ché era tutto un gioco. Mi ero ripromessa di non aspettarmi niente, che sennò ci restavo male. Mi ero ripromessa di non salvarlo in rubrica, il tuo numero, che presto saresti sparito. Mi ero ripromessa di non parlarne con nessuno, di te, che sennò come tutte le cose belle, una volta dette ad alta voce, si consumano e finiscono.
E invece, in quest’ordine, ho:
parlato di te con le mie amiche; che eri così bello, anche se un po’ troppo alto. Con quella voce grossa, da farmi venire la pelle d’oca ad ogni parola, e il codino con gli elastici colorati. Le tue labbra, i morsi che gli ho dato (un buon baciatore è difficile da trovare) e le mani, grandi.
ci ho creduto, ma subito dopo soltanto sperato;
ho salvato il tuo numero in rubrica. Ci ho messo un mese per farlo, perché non ci credevo, perché pensavo che saresti durato poco e sparito presto. Ma tu insistevi, continuavi a farti sentire, continuavi a farti strada nella mia quotidianità, che usavo come scudo. E allora poi ho ceduto. Senza cognome però. Perché per quanti F possa conoscere, volevo che tu fossi quello salvato soltanto col nome, come non faccio mai. E l’emoticon di un orso, quella che ti somiglia, e che mi fa ridere.
e lì ho iniziato a sperarci. Perché tutto sembrava diverso.
e poi ho iniziato ad aspettarmi cose. E lì l’ho sentita, la morsa allo stomaco. Perché una sensazione che conosco bene è quella delle cose che sembrano belle, e poi forse lo sono anche, ma che finiscono presto. E ogni volta, c’è sempre quella stretta che per un secondo mi mette in pausa la vita e prova a darmi suggerimenti, come il più bravo della classe che vuole aiutarmi, ma io non lo ascolto, per orgoglio, voglio fare di testa mia, e prendo 3. Una stretta che è diversa da quella della paura che qualcosa possa andare male, o finire, perché è una certezza che pian piano si materializza in un paio di occhi fissi nei miei (quando sono fortunata) che mi rovesciano addosso una secchiata d’acqua gelida. E mi ripeto che ero preparata, che dentro di me lo sapevo che sarebbe successo ad un certo punto, e faccio finta di non sentirlo, il freddo che si fa spazio tra gli strati di vestiti e arriva dritto al petto, e come nel migliore dei gavettoni, mi ritrovo fradicia dalla testa ai piedi.
ma soprattutto mi ero ripromessa di non scrivere niente, anche se volevo farlo dal primo momento, ché mi sembrava una cosa bella, che volevo raccontare, che non volevo dimenticare. Ma non l’ho fatto perché avevo paura che poi ci sarebbe stata una qualche sorta di autocombustione cosmica per il solo fatto di averla fatta uscire dalla mia testa. E infatti, eccola. Le cose vanno come devono andare, e la paura che tenendole tra le mani le sciupiamo, è insana. Le cose si rovinano comunque. Cadono a terra e si frantumano, anche se cerchiamo di tenerle al sicuro.
Ma a volte no, a volte resistono, a volte sono dure abbastanza da cadere e non rompersi, rimbalzare soltanto. Tutto sta nel capire di cosa sono fatte. E lo si riesce a fare soltanto nell’istante esatto del volo verso terra, quello in cui quando ti scivola una tazza dalle mani chiudi forte forte gli occhi e speri non si rompa, ma dentro di te sai già che andrà in frantumi.