Un bastone tra le ruote

Venezia è maledettamente umida. Il cielo è grigio, per la nebbia. Il microonde puzza di cannella, quando lo apro per metterci a bollire l’acqua. Vorrei un’ultima cicca, ma mi strafogo di M&M’s, mentre aspetto la camomilla. E’ diventato un rituale, prima di andare a dormire. Spero che mi rilassi, che mi faccia fare pace col sonno: vado a dormire tardi, dormo male, mi sveglio tardi e nervosa. Così in loop da più di un mese.
E nel frattempo, c’è una voce nella mia testa che mi dice continuamente che andrà tutto malissimo.

Mi ripete che non valgo niente, che sbaglio tutto quello che faccio o che lo faccio male, che non farò mai nulla nella mia vita. C’è questa voce nella mia testa che cerco di non ascoltare, per la maggior parte del tempo. Ma poi ci sono questi giorni in cui prende il sopravvento e si impossessa di tutti i miei pensieri, riducendo tutto a se stessa. E mi ripete che andrà tutto male. Così, in loop. Ritorna, a cicli alterni. Quando le cose vanno bene, grosso modo. Quando non c’è nulla che non va, o di cui possa lamentarmi. Lei ritorna per ricordarmi di stare attenta, di non abbassare la guardia, che la situazione precipita in un secondo, e che, quando meno te lo aspetti, andrà tutto malissimo.

Ho finito gli esami, a giugno. Ora devo scrivere la tesi. E sono bloccata.

Ho paura. Ho una paura matta, che andrà tutto malissimo. Dopo, adesso.
Cosa ne sarà di me? Cosa farò nella mia vita? Scrivo la tesi, e poi dovrò discuterla davanti a delle persone che non capiranno nulla di quello che sto dicendo perché il mio inglese fa schifo. Perché ho deciso di fare l’Università in inglese? Che io l’inglese manco lo parlo bene. Perché devo sempre fare cose più grandi di me? Non ne ero all’altezza. Perché l’ho fatto? Perché?
E poi, se pure dovessi riuscire a ingannare tutti e laurearmi, dopo cosa farò? Non riuscirò mai a trovare un lavoro, dovrò vivere sulle spalle di mamma e papà per il resto della mia vita. Sarò una fallita.
Ok, penso di essermi resa abbastanza ridicola con i miei pensieri catastrofici, ma vi posso assicurare che in certi momenti mi spaventano davvero, mi bloccano e mi impediscono di fare un passo avanti.

Per l’ennesima volta, mi sto auto-sabotando.
Ormai me ne accorgo, mi rendo conto di quando lo faccio. E questo è esattamente il momento in cui prendo un bel bastone e lo infilo tra i raggi della ruota davanti della bicicletta che sto guidando, che mi scaraventa al suolo. Quando mi rialzo, sanguinante, mi guardo intorno per capire cos’è successo, chi è stato ad avermi fatto cadere? E mi rendo conto di essere stata io, io e solamente io.
E perché? In fondo alla strada c’era una salita, con un sentiero brecciato, un po’ tortuoso, e avevo paura di arrivarci, e di provare a salire, perché forse non ce l’avrei fatta, forse sarei potuta cadere e farmi male, forse non sarei riuscita ad arrivare in cima, forse sarei dovuta scendere e portare la bici a mano, forse forse forse.
Allora meglio se cado prima, senza averci nemmeno provato?

Mi vergogno

Mi vergogno di me stessa molto più spesso di quanto dovrei. Mi vergogno del mio tono di voce appena chiudo la bocca, del suo suono quando la apro, e a volte anche di quello che dico. Perché forse non è la cosa giusta da dire, o forse potrei offendere qualcuno, o sto dicendo semplicemente la cosa sbagliata nel posto sbagliato al momento sbagliato. Mi vergogno di come mi vesto. A volte troppo da vecchia, altre troppo eccentrica, altre ancora troppo di nero. Mi vergogno degli occhiali che porto, troppo gialli, troppo scuri, dalle forme troppo strane. Mi vergogno dei miei tagli di capelli, troppo crespi, troppo gialli, troppo spenti. Mi vergogno delle scarpe che indosso, del mio cappotto, dei miei cappelli. Mi vergogno dei libri che leggo. Mi vergogno delle cose che mi piacciono. Mi vergogno di quello che penso. Ma soprattutto mi vergogno di scrivere. Ma nel senso che quasi disprezzo questo atto del mettere i miei pensieri su carta. I pensieri, renderli parole, scritte. Mi vergogno che qualcuno li legga. Me ne vergogno terribilmente. Ma di cosa? Cos’è esattamente che mi provoca tutta questa vergogna? Non saprei dirlo. Forse il mettermi a nudo davanti a chiunque possa leggere le stronzate che scrivo. Forse perché le reputo stronzate, che non vale la pena di farle leggere, figuriamoci di scriverle. Forse il fatto che le persone che mi conoscono nella vita vera potrebbero conoscere i miei veri pensieri. Forse perché ho questa propensione a voler raccontare i fatti miei, ma solo se posso scriverli, altrimenti non ci penso nemmeno. Ché è un po’ quella tendenza, o meglio quella ricerca di attenzioni, che potremmo chiamare un po’ vanità, ma anche un po’ mitomania, e che forse posseggo ma non accetto di avere e quindi me ne vergogno? Forse. Forse è insicurezza. Forse è bassa autostima. Ma forse no. Perché sono qui. A raccontare i fatti miei. A scriverli. O forse, ora che ci penso, potrebbe essere la consapevolezza che scrivere sia l’unica cosa che mi fa stare bene, che mi rasserena, che mi riappacifica con il mondo. Che mi fa tornare il respiro regolare. E forse non accetto nemmeno questo: che scrivere mi faccia stare bene. Non accetto che ho bisogno di un’unica cosa per stare bene ed è la cosa che mi piace fare di più al mondo. Scrivere.

Vorrei accettare fino in fondo questa parte di me, perché scrivere fa parte di me. Lo tengo nascosto, alla mia famiglia, ai miei amici, quasi a tutti. E non perché cambierebbe qualcosa. Ma soltanto perché me ne vergogno. E mi vergogno anche di questo. Mi vergogno di questo bisogno primario che reprimo, nascondo, sotterro. Cammino per casa, e per le strade portandomi addosso un terribile alone di disonore, come se avessi commesso il più ignobile dei peccati. E me ne vergogno ulteriormente, della mia vergogna che mi rende così incoerente. Io che vado in giro a sbandierare l’essenziale e inalienabile libertà di essere se stessi, di fare il cazzo che ci pare, che ognuno è libero di essere chi vuole. E mi vergogno di dire alla gente che mi piace scrivere. Che voglio scrivere. Ma poi mi consola il pensiero che, in fondo, siamo tutti un po’ incoerenti, che abbiamo tutti degli enormi segreti che ci tormentano e il mio è forse uno dei più banali al mondo: io scrivo, mi piace scrivere, voglio scrivere. E mi vergogno anche di questo, dell’infinita piccolezza del mio stupido segreto.

Annegare o salvarsi

Mi hanno detto che dovrei scrivere, ché anche se non ho più voglia di fare nulla, dovrei provarci. Ché mi farebbe stare meglio. Ché mi aiuterebbe a non andare in iperventilazione ogni cinque minuti. Ma di cosa dovrei scrivere? Di come sto? Della paura incontrollabile di ammalarmi? Delle giornate tutte uguali? Della paura paralizzante di perdere le persone che amo? Del nodo in gola che sento costantemente da mesi ormai? Degli abbracci che mi mancano? Cosa dovrei scrivere? Di quanto ho paura d’impazzire, di stare male, di soffrire. Di quanto penso che tutti i miei pensieri siano anche così schifosamente egoisti. Perché alla fine se muoiono loro, sono io quella che soffre. Io mi preoccupo di me, di quanto starò male io, di quanto mancheranno a me, di come farò senza di loro, di come affronterò la mia vita, di come andrò avanti io. Io io io. Sempre io.

Dovresti scrivere. Sì, hai ragione dovrei scrivere. Mi ha salvato tante volte, potrebbe farlo anche ora. Ma non so se voglio essere salvata, non so se voglio salvarmi. Mi costa troppa fatica e sono sicura mi ritroverò ad annegare di nuovo, la prossima volta. 

I miei pensieri. La mia vita. Le persone che amo. Mi tengono a galla in un’eterna danza sul filo dell’acqua, nuotare e salvarsi, annegare e lasciarsi morire. Sarebbe molto semplice se non fossi terribilmente spaventata dalla morte. 

In primis, dalla mia. E poi anche da quella degli altri. 

Ogni volta che saluto i miei nonni penso che potrebbe essere l’ultima volta che li vedo. E non mi ricordo nemmeno quand’è stata l’ultima volta che li ho abbracciati. Non credo di avergli mai detto di volergli bene.

Ho sprecato tanti ti voglio bene per gente con cui nemmeno parlo più. E a loro non ho mai detto quanto sono importanti per me. Non so se mai lo farò. Sono una vigliacca: preferisco tacere, piuttosto che esprimere i miei sentimenti alle persone a cui tengo davvero. 

Non ci pensare, non ci pensare, non ci pensare, mi ripeto tutto il tempo.

Alternandolo con moriremo tutti, moriremo tutti, moriremo tutti.

Esorcizzare la morte non funziona più.

Moriremo tutti. Oggi, domani, tra 80 anni. Non possiamo saperlo.

E io la sto aspettando seduta sul letto, senza avere il coraggio di fare niente nel frattempo, cosa che è nel complesso decisamente peggio. Magari per non avere il rimpianto, sai, di aver vissuto comunque. Di non essermi arresa alla paura. Invece no, mi arrendo, mi sono arresa. Sono una vigliacca in tutto e per tutto. Non ho più un briciolo di coraggio. Non vedo più nessun senso. Mi aggrappo alle piccole cose, a chi mi salva la vita tutti i giorni, senza saperlo. A chi mi trascina fuori di casa, a bere una cosa, a fare due passi. A chi prova a insegnarmi a ballare la salsa con la mascherina, nonostante la mancanza d’ossigeno e la mia comprovata incapacità. A chi mi riempie di chiacchiere non lasciando spazio e tempo ai miei pensieri di annegarmi. A chi mi dice che è normale avere paura, che è normale aver bisogno di aiuto, che è normale pensare d’impazzire di questi tempi. A chi mi dice di provare a superare un giorno alla volta, anzi no, un’ora alla volta, anzi no un minuto, un secondo, un respiro per volta. Non voglio annegare, fatemi aggrappare a voi, vi prego, tenetemi a galla.

Perché nessuno parla di noi universitari?


Beh, lo so, ci sono categorie più importanti di cui parlare. I malati. I morti di ogni giorno, a cui chiedo scusa in ogni momento, e per cui piango di sera sperando egoisticamente che quelli che conosco possano non ammalarsi mai. I sopravvissuti. I medici e gli infermieri, stremati, che hanno chiesto un lockdown nazionale per giorni, per il nostro bene, fondamentalmente. Ma nessuno li ascolta. I virologi a cui nessuno ha mai prestato attenzione fino in fondo, o forse un po’ all’inizio, ma non troppo, non potevamo mica immaginare una seconda ondata. Ah, ce l’avevate detto? Scusate, eravamo impegnati a ordinare i banchi con le rotelle. I bambini. Meno male che hanno lasciato aperte le scuole, non si può nemmeno immaginare un Paese in cui i bambini non vanno a scuola, non stanno insieme tra di loro, non ridono, non si divertono, non giocano, non leggono, non piangono, non scrivono, non litigano, non imparano a vivere. E i ragazzini più grandi? Quelli nelle zone in cui non possono andare a scuola dalla seconda media? E quelli di terza che dovranno affrontare il primo esame della loro vita? E i ragazzi delle superiori? Mio fratello, 17 anni, passa tutte le mattine davanti al pc. Mi sento in colpa per lui. Quanto sta perdendo, non andando a scuola, non vedendo i suoi amici, non odiando i suoi professori? Tanto. E cosa ci sta guadagnando? Poco, molto poco. Una parvenza di quella che non può nemmeno essere chiamata Scuola. Non si può pensare di crescere ed educare, anche se per un breve periodo, i ragazzi in questo modo, in questa totale assenza di relazioni umane, sociali, affettive, tattili, esperienziali.
E poi ci siamo noi. Gli universitari. Ché insieme ai ragazzi che vanno a scuola, ci avete sempre raccontato che saremo noi il futuro di questo Paese. Ecco. Io il futuro non lo vedo. Lo so che ci sarà, da qualche parte, un futuro, ma non lo vedo. Ora riesco solo a concentrarmi su ciò che mi è stato tolto, ciò che ho dovuto sacrificare. Per quale motivo? Per un bene più grande? Ho veramente tanti dubbi.
Ho iniziato per i primi sei mesi la magistrale a Venezia, andando a vivere lontano da casa. Sono stati mesi meravigliosi. Poi a febbraio sono tornata. Ho frequentato settimane di lezioni online, ho fatto esami online, ho visto i miei amici, abbiamo lavorato a progetti attraverso uno schermo, ho parlato con i miei professori attraverso un computer, e ogni giorno che passava il mio entusiasmo, la mia voglia di studiare, scoprire, crescere, diminuiva sempre di più. A settembre, quando la mia Università ha deciso di fare le lezioni in presenza sono stata la persona più felice del mondo. Ho ricominciato a seguire, a vedere i miei amici (anche se non tutti sono tornati), i miei professori, a scambiarci pensieri, idee, riflessioni, modi di vedere il mondo. È durato poco. Ora sono di nuovo a casa. Passo le mie giornate al pc, mi bruciano costantemente gli occhi e ho sempre mal di testa. Sono ancora qui a seguire corsi online, senza nessuna voglia, curiosità o interesse, sperando che i miei occhi non vadano a fuoco, chiedendomi a cosa mi servirà tutto questo. Quanto la mia preparazione verrà intaccata da questa modalità d’insegnamento? Quanto tutto ciò influenzerà la persona che sono? E le mie possibilità lavorative, domani? Quanto sto perdendo, in termini di apprendimento, non solo prettamente didattico, intellettuale, cognitivo, ma relativo a tutto quello che c’è dietro la trasmissione della conoscenza, che non è soltanto banale trasmissione nozionistica. È qualcosa che non si può spiegare, ma se qualcuno si è mai trovato di fronte a un insegnante che parla, che gli parla davvero, e ha sentito quella sensazione di pienezza, di serenità, di pacatezza, di libertà che solo chi ti trasmette qualcosa, solo chi ti lascia qualcosa dentro con le sue parole può fare, lo può capire. Ecco. Questo mi manca, e vorrei rompere lo schermo del mio computer per bucare quel filtro che c’è in mezzo e tornare a toccare le persone, e lasciarle arrivare, e lasciarmi toccare, senza avere paura.
Quando è iniziato avevo 24 anni. Tra due mesi ne compirò 25. Nessuno mi toglierà dalla testa che sono stata privata di un intero anno della mia vita. Dei miei amici, che mi mancano più di ogni altra cosa. Di tutte le esperienze che avrei potuto fare. Dei viaggi mancati. Delle persone che non ho conosciuto. Di quelle che ho conosciuto, ma ho perso. Di quelle che ho non ho perso, ancora, ma che non rivedrò più. Di tutte le occasioni che non ritorneranno. Dei baci che non ho dato, e gli abbracci che non ho ricevuto. Ma in fondo la vita funziona così, no?
E alla fine sono anche fortunata. Se mi guardo intorno, la gente si ammala e troppo spesso muore. E io mi sento in colpa per i miei stupidi pensieri egoistici. C’è una pandemia, che inevitabilmente ha colpito tutti e tutto. E tutti ne stiamo pagando il prezzo, e ne pagheremo le conseguenze.

E di chi è la colpa? Di nessuno.
O forse un colpevole c’è: quello che ha mangiato il pangolino.

Il 20 novembre

Sono due anni che il 20 novembre non esiste più sul mio calendario. Ma su quello del resto del mondo è ancora presente, quindi sono qui ad aspettare che passi il più velocemente possibile.

Sono due anni che non ti chiamo per farti gli auguri, il 20 novembre, e cantarti la canzoncina di buon compleanno come una stupida abitudine che mi hai trasmesso tu, cantandomela ogni anno e con cui tedio la gente costantemente a tutti i loro compleanni. Sono due anni che faccio finta che questo giorno non esista, ma non ci riesco. L’anno scorso ho rischiato di cadere in canale il 20 novembre, era una giornata di pioggia, come oggi, e uscivo dalla biblioteca delle Zattere e sono scivolata, cadendo lunga lunga per terra e facendomi male alla mano. Me la ricordo ancora quella figura di merda, con tutta la gente che mi guardava e cercava di non ridere. Poi ho visto un amico, che mi ha messo una lattina di tè freddo sulla mano e portata in farmacia. Ora non so più che fine abbia fatto nemmeno lui.

Il 20 novembre fa schifo. Vorrei solo prendere il telefono e chiamarti, sentire la tua voce dirmi che va tutto bene, ridere con te.

Tanti auguri a te, tanti auguri a te, tanti auguri Mara, tanti auguri a te.

La rabbia.

Dopo circa nove mesi mi sono resa conto di provare tanta rabbia. Non ci avevo pensato fino a stamattina, quando la dottoressa M. mi ha fatto notare che sono arrabbiata. Non mi accorgo quasi mai di essere arrabbiata, perché quando lo sono piango. Ma di solito piango per qualsiasi cosa, quindi non collego mai il pianto alla rabbia. Magari al nervosismo. Ma a quanto pare sono arrabbiata. E se ci penso è vero, cazzo se è vero.

Sono scappata da Venezia per la seconda volta in un anno: la prima volta a Febbraio, la seconda la scorsa settimana. Sono tornata a casa, da mamma e papà. Per la seconda volta in un anno non ho trovato il coraggio, se di coraggio si tratta, di restare da sola. Sono incazzata perché avevo dei progetti da realizzare, o almeno da provare a costruire, e non ho avuto nemmeno la possibilità di iniziare. Ho aspettato anni per trasferirmi, l’ho sognato tanto, desiderato forte, è stato il mio obiettivo per tanti di quegli anni poter andare a studiare lontano da casa. E quando c’ero finalmente riuscita, quando avevo appena iniziato una vita nuova, in una città nuova, in un’università nuova, con amici nuovi, questa felicità è durata pochissimo. Ho visto tutta la mia felicità, il mio sogno crollarmi addosso, sgretolarsi sotto ai miei occhi, mentre la gente intorno si ammalava e moriva di Covid.

E dopo tutti questi mesi, la situazione non è cambiata. Sono tornata a Venezia, a quella parvenza di normalità desiderata, respirata e trascinata per un mesetto, per poi ritrovarmi a infilare vestiti in valigia per scappare di nuovo. E’ stato difficile riabituarsi a quella vita, in un mondo completamente cambiato, senza le persone a cui mi ero abituata, ma c’ero riuscita. Finché a un certo punto non ce l’ho fatta più. Ho avuto paura. Ho paura. E pensavo che tornando a casa sarebbe passata. Non è stata così. Ho l’ansia che mi tormenta, che mi tiene sveglia, all’erta, costantemente. Che mi sfianca. Sono preoccupata che da un momento all’altro qualcuno a cui tengo possa ammalarsi. Non sono tranquilla. Non ci riesco. Sono stanca. E sono incazzata, perché mi è stato rubato un anno della mia vita. Perché mi è stato totalmente sottratto dalle mani, mentre mi ci aggrappavo stretta senza volerlo lasciare, ma non ce l’ho fatta. Mi è sfuggito. E non ho potuto fare nient, non sono riuscita a fare niente, nemmeno ad accettare di averlo perso. La dottoressa M. dice che devo fare di tutto per non considerare questo come un anno da buttare, devo ricavarne il più possibile, devo farlo per me. Non so se ci riesco. Vorrei solo dormire. Dormire finché quest’incubo non sarà finito.

Tra tre mesi avrò 25 anni. E sono terrorizzata.

Tra le tue braccia.

Sei tornato nella mia vita dopo sei mesi di totale assenza. Dove sei stato? Cos’hai fatto in tutto questo tempo? Sei stato felice almeno un po’? Ti sei divertito? Hai amato? Quanto hai bevuto? Ci hai pensato a me qualche volta? Ti sono mancata? Ti avrei voluto chiedere queste stronzate, e mille altre ancora, ma non ho avuto il tempo.

Ti ho visto per due minuti, e ringrazia che sia riuscita ad aprire bocca. Ero paralizzata, lì di fronte a te. Mi è ritornato tutto addosso, sembrava che fossimo ancora in quei giorni felici, in cui eravamo insieme. Ho capito di non averti dimenticato, ho capito che quei giorni non torneranno, ho capito che mi manchi, ho capito di averti amato senza mai dirtelo. Ti ho amato in silenzio, lentamente, con la paura di consumarlo, di finirlo, tutto il mio amore per te, e quindi me lo sono tenuta. Che idiota, eh? E adesso che ci faccio? Adesso mi sembra che mi scoppi dentro. Fa male. Fa male non poterti amare, fa male non averti qui.

Vorrei tornare indietro. Ultimamente è la cosa a cui penso di più. Vorrei tornare indietro e sistemare un paio di cose, ma giusto un paio, giuro. Vorrei non aver avuto paura. Sarei dovuta essere più coraggiosa. Le cose finiscono, comunque, a prescindere dalla nostra volontà. Me la sarei dovuta godere, la felicità, quando era lì, tutta per me. Mi sento una stupida. Vorrei tornare indietro, vorrei tornare a quando mi stringevi tra le tue braccia, e tutti i pezzi tornavano al loro posto. Vorrei tornare lì, nel posto che preferivo al mondo, perché da quando non posso più tornarci non c’è nessuno più a proteggermi.

Ero felice, tra le tue braccia, ora lo so. E adesso non faccio altro che andarmene in giro a cercare un posto che mi faccia sentire ancora così.

Do always what you can not.

Da tre mesi mi sono trasferita. Ho iniziato una nuova vita. Nuova città, nuova casa, nuovi amici, nuova università, nuovi posti, tutto nuovo, sempre nuovo. Che poi, dopo un po’ non è più tutto così nuovo. E mi piace comunque.

Ho iniziato a fare una cosa più grande di me, che mi spaventa tantissimo. Continuo a chiedermi se ce la farò, se sono in grado, se sono abbastanza intelligente, se le mie basi sono abbastanza solide, se studio abbastanza, se sono abbastanza brava, se valgo abbastanza per fare quello che sto facendo, se sono abbastanza. Ecco. Ho ricominciato a chiedere a me stessa se se sono abbastanza.

I nuovi inizi mi rendono insicura. I nuovi inizi sono come le fini, ma quelle che non finiscono. Quelle che te le porti dietro per strada, che ti stanno attaccate addosso e che non vogliono andarsene via. E non puoi far altro che lasciarle lì, aggrappate alla tua schiena, mentre le trascini dietro tra un ponte e un altro: gli inizi, le fini e le insicurezze. Beh, poi ci aggiungerei le ansie varie, un pizzico di paranoia, la nostalgia di casa, di quello che avevi prima, qualche amico, i tuoi posti, le tue abitudini, tutto quello che guardandoti indietro ti fa pensare che lì eri al sicuro, eppure non te ne rendevi conto in quel momento. Perché pensavi solo a quanto fosse noiosa la tua vita in quel buco di culo tra le colline.

E adesso l’unica cosa che vorrei è tornare a casa, nel mio letto, nascondermi sotto il mio cuscino e rimanere lì per sempre, nascosta dalla paura che mi divora lo stomaco, dal quell’ansia che mi blocca le gambe, dagli esami, dall’umidità, dall’acqua alta, dalla vita.

Eppure non lo faccio. Perché se una cosa è certa, è che sono abbastanza, ostinata soprattutto. Quindi proverò a fare andare le cose abbastanza bene, ci proverò, l’ho giurato a me stessa. Andrà tutto bene. O almeno andrà come deve andare. Perché se c’è una cosa che mi diverte tanto, è proprio questa: fare quello che non posso fare.

Soltanto per il gusto di vedere come va a finire, perché in fondo, ma proprio in fondo, dopo tutti gli stenti, il sangue buttato, le lacrime perse, e la fatica, beh, dopo ce la faccio sempre. E perché stavolta dovrebbe essere diverso?

All’alba

Ci sono momenti in cui tutto diventa chiaro, limpido, lineare, in cui finalmente capisci cosa devi fare.

Joyce le chiamava epifanie, questi improvvisi momenti di chiarificazione. Ed è esattamente quello che è successo di fronte a quest’alba.

Saranno state le 5.30 del mattino, eravamo su quella spiaggia da tutta la notte, guardando il cielo schiarirsi e i colori del giorno riflettersi sul mare, con i piedi immersi direttamente nello spettacolo che quest’alba ci stava regalando, quando l’ho capito.

C’è stato un momento esatto in cui ho realizzato che mi sono innamorata di te, e quello dopo, che dovevo lasciarti andare.

È stato il primo momento di lucidità, dopo mesi di stenti, apnee, rincorse, salti nel buio e porte sbattute. Avevamo parlato poco prima, forse la conversazione più vera intensa e profonda che avessimo mai avuto. Mi sono incazzata, ti ho urlato, ho pianto, ho mentito, ti ho abbracciato. E tu mi guardavi, senza parlare, con quegli occhi da cane bastonato che odio con tutta me stessa, ti facevo pena, e soffrivi, perché ti stavo mostrando quanto io stessi soffrendo. Alla fine sei stato capace soltanto di dare la colpa al coraggio, che non hai mai avuto, avendo vissuto per mesi nella tua misera vigliaccheria. Mi hai abbracciato, per farmi smettere, mi hai preso tra le tue braccia grandi, e io mi sentivo a casa. E poi te ne sei andato, senza nemmeno salutare, continuando a guardarmi, senza avere le palle di dire niente. Così come hai sempre fatto.

Dietro di noi il cielo si colorava, l’alba stava spuntando, e lì l’ho capito. Mi sono innamorata di te. Ma non posso amarti, non me lo lasci fare, per quanto io c’abbia provato. E quindi devo lasciarti andare. Non c’è altro che io possa fare.

E adesso?

Mi sono laureata.

Pensavo che non ce l’avrei mai fatta, e invece è andata bene, mi sono laureata, in tempo, e sono anche molto molto contenta. È andato tutto bene.

E ora non riesco a fare altro che chiedermi “E adesso? Che farò ora?” E in un attimo mi sembra di essere tornata a qualche anno fa, all’estate dopo la maturità, in cui dovevo decidere che fare della mia vita. E in un attimo sento di nuovo quell’angoscia, quell’ansia, quella paura opprimente delle decisioni importanti, perché beh, avrei dovuto decidere del mio futuro. Ed eccomi qua, di nuovo, con la stessa angoscia, con la medesima ansia di quel momento. Senza sapere che farne della mia vita. Con la solita domanda, troppe paure, e nessuna risposta.

La fine di un qualcosa destabilizza. Ci si abitua a tutto, alla solita routine, allo stesso lavoro, allo studio, a una vita insieme a qualcun altro, o alla vita in generale. Ma poi ad un certo punto la fase in cui ci troviamo finisce. E pure noi finiamo col culo per terra. E allora? Che si fa in questi casi? Come ci si alza? Da dove si parte? Cosa devo fare, a parte iperventilare?